
Una torta si crede Maria Antonietta
Tempo di lettura: 6 minutiNella storia della musica contemporanea l’immagine è da sempre una costante imprescindibile. Qualcuno potrebbe pensare che agli esordi del rock & roll questo legame non fosse ancora così evidente come lo è adesso ma a toglierci ogni dubbio ci hanno ben pensato i Beatles, già allo scadere degli anni ’60. Con la pantagruelica abbondanza visiva di Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band, seguita a breve distanza dall’austero negazionismo cromatico del White Album, i Fantastici Quattro sono riusciti a inquadrare nel giro di appena due album l’alfa e l’omega della comunicazione visiva in campo musicale. Il discorso è, però, troppo articolato per cavarcela tanto facilmente.
Se non vi ho ancora convinto, provate a elencare un album dei Velvet Underground, senza rispondere “quello con la banana in copertina”. Tentate pure di rievocare le atmosfere di Dark Side of the Moon senza fare i conti con il fenomeno di rifrazione della luce. Riempitevi quanto volete le orecchie con In the Court of Crimson King, cercando di distogliere l’attenzione dallo sguardo schizoide che urla dalla copertina. Insomma, parliamoci chiaro: senza quelle lettere distorte quanto l’ESP di Kirk, la parola “metallica” sarebbe poco più che un semplice aggettivo.
La verità è che nella musica anche l’occhio vuole la sua parte. Se non volete giudicare un album dalla sua copertina, vale comunque la pena iniziare a conoscerlo partendo da essa.

Feats Don’t Fail Me Now (Warner Bros, 1974)
In una giornata piovosa del 1971, Martin Muller è alla guida della sua auto e ha appena imboccato la Sunset Boulevard per tornare a casa. È appena uscito dall’ufficio di Herbie Cohen (manager dei Mothers of Invention) e ha appena incassato i soldi per il lavoro svolto per la copertina di Weasel Ripped My Flesh (Bizarre Records/Reprise, 1970). Poco distante, Ivan Ulz è fermo in attesa ad una fermata dell’autobus. A Los Angeles sta piovendo a dirotto e il suo primo pensiero è quello di coprire la sua chitarra come meglio può, per evitare che si bagni troppo. A quella vista Martin decide di fermare la vettura e offrire un passaggio allo sventurato. Quel fortuito incontro lo condurrà a Silverlake, dove farà conoscenza proprio di uno dei chitarristi dei Mothers, ovvero George Lowell.
Sette anni dopo, nel 1978 un appetitoso pomodoro si adagia suadente e malizioso su un’amaca, in attesa dell’arrivo di un ignaro Cristoforo Colombo.
La rinuncia dell’aspettativa di sbarcare sulle coste delle Indie, ormai già esplorate e colonizzate in lungo e in largo, ripaga con la scoperta inattesa di una nuova terra sconosciuta, ricca e vivace, capace di sconvolgere e sorprendere. Verrebbe la tentazione di scrivere una terra vergine, ma non prendiamoci in giro: l’Hot Tomato è una pin-up trasfigurata che sovrappone la scoperta dell’America alla scoperta della coscia. Di vergine ha ben poco. La copertina di Waiting for Columbus (Warner Bros, 1978) ci invita all’ascolto di uno dei live album più sorprendenti e solidi, che non ha niente da invidiare ai ben più blasonati Live at Fillmore East o Made in Japan.

Dixie Chicken (Warner Bros, 1973)
I Little Feat fioriscono nel 1969 dall’humus artistico e culturale della scena freak di Los Angeles. Lowell George aveva già all’attivo esperienze nei Mothers of Invention di Frank Zappa, insieme a Roy Estrada, che dopo appena due album abbandonerà per unirsi al “magico gruppo” di Captain Beefheart.
Comunemente associati al genere southern rock, a ben guardare il loro approccio musicale è tanto vicino al rock intriso di blues dell’Allman Brothers Band quanto alla follia psichedelica dei Grateful Dead. Probabilmente meno famosi di quanto meritano, questo gruppo è riuscito negli anni a regalare capolavori di canzoni (tra tutte Willin’, Easy to Slip e Two Trains), sorretti da un’attitudine poliedrica e caleidoscopica, rara nel suo genere. Già dal loro eponimo album di debutto del 1971 Lowell ci raccontava della disperata ricerca di un posto dove collassare per la notte (Strawberry Flats) o della sgangherata ciurma di Crazy Captain Gunboat Willie. Ritmi sbilenchi, testi bislacchi e una peculiare capacità di saltare gli steccati dei generi musicali con irriverente e maliziosa nonchalance.
Martin Muller nasce nella californiana Berkeley, pochi giorni dopo il Natale del 1940, e negli anni ’60 gravita attorno al collettivo Family Dog di Chet Helms – figura chiave della scena artistica underground di San Francisco. In quegli anni conosce anche la documentarista avanguardista Chick Strand, con la quale condividerà la propria vita fino alla sua morte avvenuta nel 1993. Nel 1970 Martin aveva già scelto per sè il nome di Neon Park, un nome che già allude a un’arte che si nutre di eccesso, di provocazione e ironia.
La copertina per Weasel Ripped My Flesh (Bizarre Records/Reprise, 1970) nasce da una semplice provocazione di Frank Zappa, il quale chiede il “peggio del peggio” che Neon Park possa immaginare. La retorica dell’uomo “che non deve chiedere mai” passa dal parossismo pulp di una rivista soft-core a una deformazione grottesca del quotidiano, che avrebbe fatto impallidire persino Lovecraft. Nemmeno l’autoironia tipografica dei fumetti che racchiudono i testi riesce a sminuire il senso disturbante e disgustoso della scena.
Appena due anni dopo Neon Park dà un passaggio a Ivan e si ritroverà a iniziare la sua collaborazione con i Little Feat, intenti i quel periodo a dare alle stampe Sailin’ Shoes.
Lungo i solchi di questo capolavoro, Lowell semina il proprio immaginario surreale e indolente, raccontandoci tra le altre cose di una donna col turbante che si lancia in danze all’ombra di alberi di coca, per poi lamentarsi delle continue e inopportune telefonate del presidente Mao. Con dei testi del genere, cosa mai potrà andare storto? Assolutamente nulla.

A sinistra: I fortunati casi dell’altalena (Jean-Honoré Fragonard, 1767) – a destra: Ragazzo Azzurro (Thomas Gainsborough, 1770)
Neon Park raccoglie la sfida e ci propone una delle sue trasfigurazioni apparentemente non-sense che ha, invece, il compito di portare a galla il messaggio nella maniera più espressiva possibile. Se Waiting for Columbus si impone di pescare dall’iconografia contemporanea americana, Sailin’ Shoes si diverte a giocare con riferimenti europei del tutto classici. Allo stesso modo della pin-up, la donna sull’altalena rappresenta un soggetto del desiderio, consapevole e protagonista della propria sensualità frivola e divertita. Il rococò grazioso e a tinte pastello si deforma in un kitch sboccato e saturo, ma in fondo il succo è lo stesso.
Cosa c’è di più gustoso del fortuito caso di una donna sull’altalena che si concede al nostro sguardo?

Un’ennesima trasfigurazione da parte di Neon Park per un album dei Little Feat di una pin-up: Finishing Touch (Gil Elvgren, 1960)
Dopo Sailin’ Shoes Neon Park continuerà a curare le copertine e le grafiche dei Little Feat fino alla sua prematura morte, avvenuta 1993. Per onorare la sua memoria, la band gli dedicherà Ain’t Had Enough Fun (Zoo/Volcano Records, 1995) e darà alle stampe Live from Neon Park (Zoo Entertainment, 1996). Ancora oggi, i Little Feat continuano a usare i disegni e le opere dell’artista in ogni loro pubblicazione, a riprova di quanto sia stretto il legame tra la loro musica e la sua opera.
In 1966 i found my love, in 1967 I had all there was
and as my time went by I was satisfied,
until that situation took me by surprise
now there’s two trains runnin’ – on that line
one train’s me, and the other’s a friend of mine
you know it would be all right, be just fine
if the woman took one train, and left the other behind(Two Trains, da Dixie Chicken, 1973)
Manuela
12 Febbraio 2020 12:01Un’ altra interessante collaborazione che, oltre a dimostrare un’ altra volta quanto possa essere vasto il panorama che influenza il mondo della musica (in questo caso quello artistico e grafico), dà la possibilità di scoprire artisti e band a volte ancora ignoti, come per me i Little Feat.
E’ sempre bello poter allargare le proprie conoscenze, quindi benvenuto ad Alberto Salis (di cui poi avevo già letto i commenti nel blog).
ALBEgrafiche
12 Febbraio 2020 12:34Grazie Manuela!
Dato l’insperato apprezzamento che sto ricevendo per questo mio esordio, ho già altri argomenti di cui vorrei trattare. Con la speranza di tenere fede alle aspettative, ovviamente.
DB
12 Febbraio 2020 14:50Se anche tu vieni bombardato da stimoli creativi continui con conseguente ansia di non riuscire a tradurre in parole il meraviglioso groviglio di idee che ti affollano la mente, benvenuto! C’è chi dice che scrivere sia un po’ questo. Non mi ricordo dove l’ho letto, sono un disastro con le citazioni.
ALBEgrafiche
12 Febbraio 2020 14:57Ti aspettavo al varco Damiana…
Ero curioso di sapere cosa avresti pensato della mia prima fatica.
DB
12 Febbraio 2020 14:58Uno degli aspetti più affascinanti dell’arte è che non è mai fine a se stessa. Non può esserla, per definizione. Il tuo particolare approccio – competente e non banale – è la dimostrazione che la musica non è solo ciò che si ascolta e che si può ancora raccontare molto, al di là di ciò che tutti pensano di conoscere a memoria.
ALBEgrafiche
12 Febbraio 2020 15:03Il grosso problema è trovare fonti sul rapporto tra comunicazione visiva e sonora, durante la fase di ricerca, per poter stabilire un filo conduttore coerente…
Non ce ne sono molte, al di là del solito elenco da wikipedia (che va già benissimo ma che rischia di diventare – appunto – fine a sè stesso).
Non nascondo di temere con alcuni articoli che ho già in mente, di aver fatto il passo più lungo della gamba >D
DB
12 Febbraio 2020 19:38Sono convinta che le tue gambe staranno al passo ???? È impegnativo produrre contenuti di qualitàa ne vale sempre la pena. Bravo!
Manuela
12 Febbraio 2020 21:22Complimenti ad entrambi per come, alla fine, riuscite a sciogliere i vostri grovigli di idee in racconti ordinati e originali.????
ALBEgrafiche
15 Febbraio 2020 21:31Grazie mille Manuela!
AffiliateLabz
16 Febbraio 2020 00:41Great content! Super high-quality! Keep it up! 🙂