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Requiem di copertina, pt.2 – Psichedelia, tutte le teste ti porti via.

Tempo di lettura: 7 minuti

Nel 2008 l’Independent ha pubblicato un articolo, nel quale Peter Blake e Peter Saville decretano di fatto la fine della cover art. Saville ha legato il proprio nome ai Roxy Music di Flesh & Blood e ai New Order, ma il suo capolavoro assoluto è la copertina di Unknown Pleasure dei Joy Division. Blake è invece l’artista dietro alla copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band.
Secondo loro, nell’era della musica digitale in streaming, gli album stampati sono destinati a sparire. E con loro, tanti saluti anche alle copertine, ormai condannate a rapido oblio. Cerchiamo, quindi, di ricostruire alcuni dei capitoli fondamentali della storia della cover art nella musica e vediamo se veramente questa è la sua conclusione, o se semplicemente è un nuovo capitolo appena iniziato.
NOTA: Questo articolo è strutturato in quattro parti. Questa che state leggendo è la seconda. Buona lettura!

Cream, Disraeli Gears (Atlantic, 1967) – cover art di Martin Sharp da una foto di Bob Whitaker

Ci troviamo nel Chelsea della Swinging London,  al numero 52 di Kings Road. Oggi il Pheasantry è un edificio ormai storico dall’architettura georgiana, al cui interno trovereste una pizzeria. Nel 1967 è, però, tutta un’altra cosa. Al piano terra è stato inaugurato, appena un anno prima, un nuovo nightclub nel quale si esibiranno, tra gli altri, personaggi come Lou Reed, Queen e Hawkwind. Ai piani superiori, nei quali sono stati ricavati appartamenti e studi, alloggiano Eric Clapton e Martin Sharp. Eric ha da poco messo alle spalle la sua esperienza in quel meraviglioso laboratorio musicale che sono i Bluesbreakers di John Mayall, formando i Cream (insieme a Jack Bruce e Ginger Baker). Martin, invece, si è lasciato alle spalle l’Australia e un processo per oscenità, dovuto a una sua opera particolarmente controversa apparsa su Oz Magazine. I due si sono conosciuti allo Speakeasy di Margaret Street e quell’incontro ha già prodotto i testi e le note di Tales of Brave Ulysses, finito dritto dritto nella tracklist di Disraeli Gears.

Martin Sharp, Mr. Tambourine Man (Oz Magazine n.7, 1967)

Proprio per Disraeli Gears Martin curerà l’artwork della copertina, prendendo una foto scattata da Bob Whitaker e inserendola in un collage arricchito di forme libere e saturo di colori sgargianti. L’intento non è più quello di rappresentare il gruppo nel proprio aspetto fisico, ma quello di catturarne una sorta di “identità musicale”. Il semplice scatto di gruppo in posa non è sufficiente: quello che serve è un’icona che a detta stessa del suo autore deve essere in grado di tradurre in immagine il suono distintivo dei Cream. Durante gli anni Sessanta gli LP stanno facendo breccia in un pubblico giovane, pronto a seguire e idolatrare artisti come Bob Dylan, Jimi Hendrix, David Bowie o gli stessi Beatles. I (bianchissimi) alfieri di una musica partorita dal (nerissimo) blues. Proprio questi alfieri sono i primi ad avere la possibilità di ricavarsi un ruolo più attivo nella direzione artistica, trasformando le copertine degli album da semplice strumento di marketing a spazio di espressione creativa per eccellenza. La composizione tipografica, dopo essersi unita alla fotografia ormai si mescola con l’illustrazione, inaugurando il periodo d’oro della cover art.

The Jimi Hendrix Experience, Axis: Bold as Love (1967, Track Records) – cover art di Roger Law e David King da una foto di Karl Ferris

Il 1967 è uno di quegli anni irripetibili per la storia della musica. In appena una dozzina di mesi vengono pubblicati Are You Experienced?, The Piper at the Gates of Dawn, The Who Sell Out e – guarda caso – The Velvet Underground & Nico e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (esatto, sempre loro…). Sono gli anni della psichedelia, sono agli anni del “flower power” e del “free love”, ma anche delle “groupies” e degli “acid test”. Tutte cose che a noi suonano come cliché buoni per  una puntata dei Simpsons a caso, o di una sitcom qualsiasi. In quegli anni erano, invece, considerati dei veri e propri rituali profani di un movimento culturale e sociale, il cui intento era sperimentare una sorta di misticismo laico. “La controcultura ha i suoi sacramenti nel sesso, nella droga e nel rock” scriveva il LIFE Magazine. La musica si veste di sacralità e il suo ascolto diventa rito. E ogni rito che si rispetti ha bisogno di incensi, altari, sacerdoti e – soprattutto – icone.

In quel periodo Rick Griffin è un ragazzotto californiano che solo a guardarlo trasuda surf e psichedelia da tutti i pori.  Barba lunga bionda, contornata da capelli selvaggi e un look tipico di chi sta vivendo il proprio momento di ribellione contro l’imposizione delle vecchie generazioni (leggasi suo padre). L’occhio dislocato, invece, è l’eredità lasciatagli da un brutto incidente, un segno che influenzerà non poco la sua opera. Rick aveva già alle spalle una certa reputazione grazie al suo Murphy, personaggio creato per Surfer Magazine e diventato di fatto la mascotte della comunità di surfisti californiana. Dopo essersi stabilito a San Francisco, inizia a frequentare la comuntà hippie di Haight-Ashbury.

Rick Griffin, Jook Savage Art Show (Psychedelic Shop, Haight-Ashbury, 1967)

La Summer of Love bussa già alle porte della percezione e al suo avvento corrisponderà anche il suo esordio artistico vero e proprio. Proprio sulla via principale di Haight-Ashbury era stato inaugurato nel 1966 lo storico Psychedelic Shop dei Jook Savages, al secolo Ron e Jay Thelin. I due fratelli stanno organizzando il Jook Savage Art Show, previsto in occasione del primo anniversario del loro head shop. Griffin ha avuto l’occasione di realizzarne il manifesto e quando ormai il suo capolavoro è pronto per essere stampato, entra in contatto con Michael Bowen. Michael è un artista visionario, fondatore del San Francisco Oracle e dopo essere rimasto colpito dallo stile di Griffin, gli commissione la realizzazione del manifesto per un altro evento, nonostante fosse già stata realizzata un’altra grafica, a opera di Stanley Mouse. Il 14 gennaio 1967 lo Human Be-in inaugurerà di fatto la Summer of Love e per Griffin si apriranno le porte della Family Dog di Chet Helms (ne avevamo già parlato qui, se ricordate), diventando una delle figure più influenti nel panorama artistico della sua generazione, assieme ad Alton Kelley, Victor Moscoso, Wes Wilson e Stanley Mouse (i Big Five della psichedelia).

Rick Griffin, Pow Wow Gathering of the Tribes Human Be-In (Golden Gate Park, 1967)

Sin da subito è chiaro come l’interesse di Griffin si concentri sulla deformazione esasperata di forme e su accostamenti eclettici di stili. In entrambi i casi i riferimenti iconografici e tipografici del Wild West sono immersi in un’amalgama compositiva organica e libera da schemi rigidi. Il risultato è un tripudio di forme godibili sia nel suo insieme che nei singoli particolari. La ricercatezza nel disegno del lettering rimarrà una costante nell’opera di Griffin. Per la copertina dell’album di debutto dei Quicksilver Messenger Service realizzerà il moniker, il cui stile elaborato, eccentrico e ricercato al limite della leggibilità abbandona qualsiasi riferimento tradizionale, in favore di una forma originale e personale.

Quicksilver, Quicksilver Messenger Service, (Capitol, 1968) – cover art di Rick Griffin

L’illustrazione per il terzo album dei Grateful Dead è un gioco di scatole cinesi fatto di allucinata ambiguità e ambivalenza, a partire dal titolo. Il gioco palindromo non-sense di Aoxomoxoa è un’invenzione di Griffin stesso, partorita in combutta con Robert Hunter, “paroliere” degli stessi Grateful Dead. Nuovamente il lettering riveste un ruolo di primaria importanza, con il nome del gruppo che tra le sue complicate linee nasconde il messaggio programmatico alla base del progetto musicale del rock psichedelico: “we ate the acid”.

Grateful Dead, Aoxomoxoa (Warner Bros, 1969) – covert di Rick Griffin

L’intera illustrazione è organizzata in una rigorosa simmetria, dove ogni singolo elemento è pensato per suggerire l’associazione di idee attraverso lettere, forme e colori. Il sole al centro non è altro che un ovulo attorniato dal seme fuoriuscito dal teschio fallico infisso nel terreno, mentre dai feti fiorisce una selva di arbusti, fiori e soprattutto funghi allucinogeni. La simbologia è una celebrazione per immagini del concetto del ciclo continuo tra vita e morte,  racchiusa in una cornice che sposa l’iconografia dell’esoterismo egizio allo stile grafico dell’art nouveau. La chiave di volta che regge tutta l’opera nasce dalla la gravidanza di Ida – compagna di vita di Rick – in quei mesi in attesa del loro secondo figlio. Negli anni Aoxomoxoa verrà celebrato come l’apice musicale e visuale della stagione psichedelica, anche se per certi versi ne è anche il testamento. È il 1969, la Summer of Love è ormai conclusa, la comunità hippie inizia a fare i conti con sè stessa e il sogno di peace and love inizia a incrinarsi, sotto il peso della sua stessa ingenua innocenza.

Fine della seconda parte.

CONTINUA A LEGGERE:
Requiem di copertina, pt.1 – Overture in blues.
Requiem di copertina, pt. 3 – Anarchy in the LP.
Requiem di copertina, pt. 4 – Show Must Go on.

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